10 Aprile 2025
Abate Generale Mauro-Giuseppe Lepori O.Cist.
Mi è stato chiesto di parlare specificamente del tema della formazione. Cercherò di trasmettere alcune riflessioni derivanti dalla mia esperienza personale, soprattutto nel contesto della vita del mio Ordine, che ho imparato a conoscere così bene negli ultimi 14 anni come Abate Generale, nei diversi continenti e culture in cui è diffuso. Poiché siete alla vigilia della scelta di un nuovo Abate Primate, mi concentrerò un po' più specificamente sulle esperienze e i sentimenti che provo in questo ambito, in relazione alla situazione attuale delle comunità che visito e dei monaci e delle monache che incontro. So che oggi, nei diversi Ordini, viviamo più o meno le stesse esperienze, le stesse sfide, gli stessi motivi di gioia e speranza, ma anche di delusione e preoccupazione per il futuro.
Sempre discepoli
Da quando sono entrato in monastero, 40 anni fa, mi è stato chiaro che essere monaco ed essere discepolo sono identità che coincidono. Ma anche da quando sono abate, cioè da 30 anni, posso dire che è la stessa cosa: essere abate e discepolo, essere padre ed essere figlio, formare ed essere formato, è la stessa cosa, o almeno dovrebbe esserlo. E quando questa coincidenza non si verifica, o non è almeno desiderata e quindi ravvivata, il risultato è una triste sterilità.
Durante l'anno del mio noviziato, ho visto Dom Sighard Kleiner (1904-1995) tornare a Hauterive, dopo 35 anni di ministero a Roma, principalmente come Abate Generale. Per noi giovani, la sua presenza tra noi è stata di grande aiuto alla nostra formazione, non solo e non tanto per i corsi che poteva offrirci, ma perché, a oltre 80 anni e dopo tanti anni di governo dell'Ordine e di partecipazione al Concilio Vaticano II, era ancora e sempre un discepolo tra noi, un monaco che ascoltava, leggeva e meditava ogni giorno. Questo esempio rimane impresso in me e, oggi più che mai, mi spinge a un esame di coscienza su ciò che nel mio ministero, o in quello dei superiori con cui cammino, risulta sterile, inefficace, incapace di generare vita, di sostenere davvero i più fragili (e oggi tutti sono fragili), di accompagnare un cammino che, nonostante le difficoltà, avanza e non si ferma nelle acque stagnanti dell’autoreferenzialità, del narcisismo capriccioso o di una mondanità sempre insoddisfatta.
Sappiamo che non mancano, nella Chiesa e nei nostri Ordini, continui appelli alla formazione permanente dei superiori e di tutti i membri dei nostri Istituti. Non mancano proposte di corsi, strumenti, materiali e collaborazioni per favorire la nostra formazione permanente. Ci sono risultati positivi. Ma ci sono state anche tante delusioni, tanti abbandoni, a volte assurdi nelle motivazioni e nelle modalità. La loro frequenza ci ha forse indotto a smettere di sorprenderci. Ma dovremmo almeno chiederci cosa tutto questo ci chiede, cosa ci invita a fare e quale conversione provoca.
In termini più positivi, possiamo chiederci: cosa spinge così tanti monaci e monache anziani a rimanere discepoli in ascolto, assetati di formazione e conversione, come dicevo a proposito di Dom Kleiner? Spesso, ci rallegriamo semplicemente con loro della freschezza di spirito che conservano fino a tarda età, sperando che il nostro cervello, che sembra già stanco e privo di flessibilità, subisca la stessa sorte. Ma è davvero questo che rende discepoli, anche in età avanzata? In effetti, ci sono monaci e monache anziani che rimangono discepoli nonostante le ridotte facoltà fisiche e intellettuali richieste per leggere e imparare.
Formazione e vocazione non devono essere dissociate
No, il vero segreto di questi discepoli eterni non sta nel cervello, ma nello spirito. Il loro segreto sta nel non dissociare la formazione dalla vocazione. Non tanto una vocazione a un particolare servizio o ministero, quanto una vocazione a seguire il Signore sulla “via della vita” che Lui, “nella sua misericordia”, ha scelto per ciascuno di noi chiamandoci alla vita monastica secondo San Benedetto (cfr. RB Prol. 20).
Regola di San Benedetto è permeata da questa costante e totale inerenza della formazione alla vocazione, e non devo certo insegnarvela. Tanto che, per seguire la vocazione monastica, san Benedetto non dice di fondare un monastero, ma una schola del servizio del Signore (RB Prol. 45). Tutti, dal novizio all'abate, devono essere sempre formati all'ascolto della Parola di Dio e della Chiesa. Non si tratta solo di una formazione previa, che si acquisisce all'inizio e che si può vivere, ma di un atteggiamento costante, perché Cristo ci chiama a seguirlo ora come ci ha chiamato all'inizio. Se l'abate deve saper trarre dalla Parola di Dio cose vecchie e cose nuove (RB 64, 9), ciò significa che deve continuare ad ascoltarla oggi come ieri. La novità, anche quando è frutto di una radice antica, deriva sempre da un dono che scaturisce dallo Spirito Santo. La novità è l'evento originario che rimane presente e vivo per noi e per tutti. La fonte è l'origine che rimane presente, che sgorga ora, ed è solo attingendo ad essa ora che possiamo trasmettere agli altri un'acqua che continua a zampillare, pura e fresca.
La dissociazione tra formazione e vocazione mi sembra l'errore educativo più diffuso oggi, come lo è stato in altri momenti di crisi della vita monastica, ma anche della vita religiosa in generale, per non parlare della vita cristiana nel suo complesso. È come se fingessimo di seguire il Maestro senza ascoltarlo, senza imparare tutto da Lui, senza implorare: «Signore, insegnaci!», e non solo «a pregare» (Lc 11), ma a vivere, a vivere una vita che è l'inizio della vita eterna in questa vita. È come se non ascoltassimo Cristo che, nel chiamarci, nello sceglierci come discepoli, ci dice: «Imparate da me… e troverete ristoro per le vostre anime» (Mt 1).
Cosa significa imparare da Cristo? Perché, anche quando studiamo teologia o altre materie utili e, diciamocelo, necessarie alla nostra vita, ci sentiamo come se stessimo lentamente lasciando la “scuola del servizio del Signore”, allontanandoci, come il giovane ricco, dal Maestro dolce e umile? Cosa ci spaventa di questa scuola, di questo Maestro sempre paziente, sempre pronto a ripetere le sue lezioni, che non dà esami, che non dà voti, che non fa ripetere l'anno? E perché, soprattutto, fingiamo di essere alla sua scuola, di imparare le sue cose, le sue materie, le sue parole, la sua morale, la sua filosofia di vita, ma come se preferissimo frequentare insegnanti che ci parlano di Lui invece di essere Lui a parlare a noi?
Formazione nell'interesse di Cristo
La sottile infedeltà che si insinua nella formazione che offriamo o riceviamo ha a che fare con il fatto che vogliamo essere suoi discepoli senza accettare di rinunciare al nostro progetto di vita. Dire "sì" alla nostra vocazione e diventare veri discepoli di Cristo non è possibile senza entrare, almeno come desiderio, nel suo progetto su di noi, che corrisponde al disegno del Padre di renderci suoi figli nel suo Figlio unigenito. Cristo è il nostro Maestro, che ci conduce a questo compimento della vita in Lui con il Padre nel dono dello Spirito. Cristo ci chiede di rinunciare al nostro progetto di noi stessi, in ultima analisi illusorio, per entrare nella realtà della vita che Lui, la risurrezione e la vita della vita, è per noi, se lo seguiamo.
Ho l'impressione che sia su questo punto che ci siamo tutti un po' allontanati dalla via tracciata dal Maestro e Signore, dimenticando che la sua prima lezione di vita e di vocazione è la lavanda dei piedi, il suo pulpito la Croce, la sua sapienza la dolcezza e l'umiltà del suo Cuore. Siamo scivolati fuori da questa via attraverso un'impercettibile ma progressiva conformazione al mondo, ai suoi progetti, alla sua idolatria del successo, della realizzazione personale. Confesso che sempre più spesso, quando guardo le nostre comunità, i giovani che entrano e rimangono, il modo di governare di alcuni superiori, ecc., mi ritrovo a esclamare con San Paolo: «In realtà, ognuno cerca i propri interessi, non quelli di Gesù Cristo» (Fil 2).
Badate bene, è sempre stato così, se lo dice San Paolo. Il problema è quando non ce ne rendiamo più conto, quando non sentiamo più la ricerca dei nostri interessi come un'infedeltà da cui il nostro cuore ha bisogno di essere convertito ancora e ancora, fino alla fine. Il problema sorge soprattutto quando arriviamo a identificare la vocazione con la ricerca dei nostri interessi, senza nemmeno pensare che Cristo possa avere interessi diversi dai nostri meschini interessi individuali. Il problema è quando vogliamo attrarre vocazioni al monastero con una propaganda che non promette altro che autorealizzazione narcisistica, proprio come qualsiasi palestra o università per mammoni.
Siamo molto lontani dal RegolaRequisiti per accogliere le vocazioni: bussino alla porta per quattro o cinque giorni, rispondendo con insulti e altre difficoltà opposte al loro ingresso (cfr RB 58, 3), poi verifichino se il novizio è pronto e desideroso “ad oppobria” (58, 7), cioè a tutto ciò che nel monastero sarà più o meno contrario ai suoi gusti e ai suoi progetti.
Il centro di preferenza
Sappiamo che per san Benedetto – sempre attento a non rompere il vaso sforzandosi troppo di raschiare via la ruggine, e a non schiacciare la canna già frantumata (cfr RB 64, 12-13) – questa perseveranza non è richiesta come prova di forza stoica, ma come prova di preferenza per Cristo, prova di amore per Lui. Chi è veramente innamorato non cede agli ostacoli che lo separano dall’amato.
Non è forse qui che la nostra formazione ha smarrito la sua bussola? Non abbiamo forse smarrito la mistica di Cristo Sposo amato, di Cristo pienezza di cuore e di vita? Non abbiamo forse smarrito il senso di Cristo come colui accanto al quale non abbiamo nulla di più caro (RB 5, 2)? Formuliamo ancora la mistica di preferire Cristo a noi stessi, come il vero e reale compimento del nostro io, della nostra vita?
Quando questo viene perso, tutto si sbilancia. Trascurando il perno e il centro della vocazione, Cristo che ci chiama a Sé, perdiamo inevitabilmente l'orientamento e l'unità di tutto ciò che la vocazione implica. Non sappiamo più come regolare tutti questi frammenti, che hanno senso solo se un centro li ordina e li armonizza, dando a ciascun frammento il suo compito, la sua funzione e la sua regolazione in relazione al tutto. Quando vedo la goffaggine di tanti superiori e comunità nel regolamentare l'uso di internet e dei social media, mi chiedo se il problema non sia molto più generale: siamo sicuri che gli altri elementi della nostra vita, come il lavoro, le relazioni, il riposo, la liturgia stessa, siano già armoniosamente integrati in una vita cristocentrica? Se Cristo non è al centro, anche l'Eucaristia diventa un frammento che non riesce a trovare il suo posto e la sua funzione.
Per questo san Benedetto ha istituito la scuola di vita monastica come una comunità in cui la liturgia e l’abate sono ciò che indica sempre Cristo come centro della vita, ricordando ed educando a ricordarci di Lui, a ritornare a Lui, a vivere tutto per Lui, con Lui e in Lui.
Regola ci insegna a sentirci chiamati a Cristo e da Cristo in ogni momento e in ogni aspetto della vita. Per ogni aspetto della vita, l' Regola ci insegna ad ascoltare una parola di Dio che ci chiama a Lui. Educarsi ad ascoltare è lo stesso che educarsi a seguire. Nel Regola, non esiste dicotomia tra vocazione e formazione.
Qualche mese fa ho effettuato la visita canonica del nostro monastero più grande, per numero di monaci: 216, in Vietnam. Abbiamo ascoltato 186 frati. Per la prima volta, li ho sentiti esprimere la loro preoccupazione per il forte calo delle vocazioni che si sta verificando lì, come nel resto dell'Asia. Anche i più giovani sono preoccupati per questo fenomeno. Ai nostri occhi occidentali, abituati da decenni a questi tempi di magra, questa preoccupazione può sembrare infondata, dato che lì ogni anno si registrano ancora più vocazioni di quante ne abbiamo avute noi per forse 30 anni. Mi sono reso conto, tuttavia, che questo disagio, questa paura di un futuro che sembra promettere sempre meno, potrebbe essere il segno di un tempo di grazia che chiamerà questi monasteri a un risveglio della coscienza. Dio ci chiama a non preoccuparci tanto delle vocazioni quanto della vocazione stessa. Avere così tante vocazioni spesso ci fa dimenticare la vocazione, che è l'unica cosa che conta, anche quando le vocazioni sono tante. È una domanda che tocca direttamente il tema della formazione. Spesso, come in passato in Europa o in America, l'abbondanza di vocazioni ha portato a trascurare la formazione vocazionale. Ma l'eccessiva fragilità ha anche spesso portato a trascurare la necessità di coltivare la vocazione fino in fondo, perché la vocazione ci è data per seguire Cristo fino in fondo. Per vivere una vocazione, non è importante essere molti o pochi. Se non ci prendiamo cura della nostra vocazione, è inutile essere molti, ed è triste essere pochi. Se la vocazione è curata e plasmata, essere molti diventa una fecondità grata e umile, piena di responsabilità, ed essere pochi diventa un'opportunità di offerta che si compie nella fecondità pasquale del seme che cade nella terra e scompare per portare il frutto abbondante che Dio vuole.
Circolarità degli stati di vita
Vorrei tuttavia concludere con una riflessione su un aspetto che, a mio avviso, non va dimenticato quando pensiamo alla formazione monastica. Corriamo tutti il rischio di concepire in modo isolato la formazione propria dello stato di vita cristiana a cui siamo chiamati nel Corpo di Cristo che è la Chiesa. E questo vale sia che apparteniamo allo stato di vita consacrata, sia a quello di vita clericale, sia a quello di vita laicale. Come se un organo di un corpo potesse svilupparsi e funzionare indipendentemente dal corpo a cui appartiene. Al contrario, il cuore può svilupparsi solo se batte per tutto il corpo vivente; la testa può sviluppare la sua funzione di governo del corpo solo se invia impulsi nervosi a ogni membro e li riceve da ogni membro. Lo stesso vale per ogni arto in relazione alla testa, al cuore e agli altri organi o arti del corpo.
L'impulso sinodale che cerchiamo di ravvivare oggi nella Chiesa può essere un'ottima occasione per riscoprire o avviare in ogni stato di vita e in ogni vocazione una formazione attenta alla complementarietà circolarità degli stati di vita per la vitalità dell'intero corpo ecclesiale. Si tratta, in sintesi, di lasciarci formare dalla complementarietà degli altri stati di vita all'interno dell'unico Corpo di Cristo.
Mi sembra che oggi abbiamo urgente bisogno di riscoprire una sana consapevolezza di questa complementarietà di tutti gli stati di vita, fondata sul Battesimo. Spesso, questa complementarietà è pensata solo come uno scambio di servizi sostitutivi (ad esempio, laici che vengono a pregare in coro al posto dei monaci), oppure è vissuta erodendo gli spazi di potere propri di ogni stato di vita (ad esempio, quando pensiamo che la promozione dei laici consista nella loro clericalizzazione, o che i religiosi siano utili se assumono un ruolo pastorale diocesano). Al contrario, la vera esigenza di ogni stato di vita è che gli altri stati di vita vivano pienamente la loro specifica vocazione e missione. Per vivere appieno la vita religiosa e monastica, abbiamo bisogno che gli altri stati di vita, clericali e laici, vivano appieno la loro vocazione. E ogni stato di vita pienamente vissuto aiuta gli altri a vivere pienamente la propria. In altre parole, è molto più utile alla vita monastica che i laici si dedichino totalmente alla natura secolare della loro vocazione, piuttosto che aspettarsi che ci sostituiscano nella nostra vocazione trascurando la propria.
La vera collaborazione è quella complementarietà in cui ogni Stato vive la propria vocazione, e ogni Stato è consapevole e sperimenta che la vitalità di coloro che vivono in altri Stati è anche una conquista per sé. Perché siamo membri diversi, ma complementari e coessenziali dello stesso corpo.
È molto più fruttuoso per tutti e per tutta la Chiesa se i monasteri aiutano i laici a essere laici, i sacerdoti a essere sacerdoti e i laici e i sacerdoti ad aiutarci a essere monaci.
Ma anche per vivere così abbiamo bisogno di una formazione monastica fondata su una consapevolezza solida, chiara e soprattutto grata del mistero della Chiesa, nella quale siamo salvati e santificati da Cristo Redentore.