Lezioni dal deserto:
Le riflessioni finali dell’abate Gregory Polan

L’abate primate emerito Gregory ha scritto: «Per Poemen, nulla di meno che una totale dipendenza da Dio ci permetterà di vederci come realmente siamo. Se non abbiamo nulla su cui contare, nulla che ci faccia sentire sicuri, questo ci porta a vederci spogliati di ciò che ci dà un falso senso di chi siamo in questo mondo.»

25 Marzo 2025

Sono passati otto anni da quando ci siamo riuniti come Corpo degli Abati Benedettini. Sono emerse molte questioni significative per il nostro mondo, la nostra Chiesa e il nostro Ordine benedettino. Abbiamo affrontato, e continuiamo ad affrontare, un mondo diviso dalla guerra, dalla violenza, dalla morte a molti livelli e da espressioni di estremismo. Allo stesso modo la nostra Chiesa, di cui credo siamo una parte vitale, ha attraversato tempi di sofferenza e di guarigione, di umiliazione e di onore, di morte e di nuova vita. E la nostra Chiesa ci ha indicato nuove direzioni per il futuro, per una ri-dedicazione a Cristo e alle verità del Vangelo. Questo sarà sempre arricchito dalla nostra capacità di relazionarci gli uni con gli altri in modo sinodale. Proprio come la nostra Chiesa, il nostro Ordine benedettino ha lottato per affrontare la realtà di comunità più piccole, di un numero inferiore di vocazioni in molte parti del mondo e della ricerca di una saggezza più profonda per tracciare nuove direzioni di formazione all’interno delle nostre comunità a tutti i livelli, compresi noi stessi in qualità di abate e di membri anziani delle nostre comunità. Eppure, quando si parla delle nostre sfide, queste non sono forse un incentivo a rinnovare la nostra vita benedettina a tutti i suoi livelli? Non sono forse i nostri percorsi in avanti per dedicarci ad capire i problemi e un piano per il continuo e costante rinnovamento del nostro Ordine benedettino, la nostra missione in Cristo e il nostro invito a rendere lo spirito benedettino vivo, buono e sano? La nostra dedizione al motto semplice ma profondo di “Ora et Labora” ci offre molti modi in cui renderci conto di come l’Ordine benedettino può andare avanti come leader creativo e ricco di speranza nella Chiesa, per i molti modi in cui possiamo avvicinare la nostra Chiesa e il nostro mondo mediante tutto ciò che ha contraddistinto i benedettini nei secoli: liturgia, preghiera, silenzio, ascolto, contemplazione, dialogo, ecumenismo, moderazione, umiltà, obbedienza e ospitalità.

Il mio intento nella conferenza di questa mattina non è quello di riassumere il mondo benedettino per voi. Questo è il lavoro dei membri del Sinodo dei Presidenti degli Abati, che hanno preparato relazioni e brevi discorsi che ascolteremo nei prossimi giorni. Vorrei piuttosto parlarvi come fratello abate che si è assunto il compito di rimanere abate vivendo e lavorando in un luogo unico e meraviglioso qui a Sant’Anselmo a Roma. Quello che posso dire, e che approfondirò domani parlando dei ruoli dell’Abate Primate, è che è stato molto diverso dalla mia precedente esperienza di servizio come Abate dell’Abbazia dell’Immacolata Concezione, più spesso conosciuta come Abbazia della Concezione, nel cuore degli Stati Uniti. Vi ringrazio sinceramente per avermi chiamato a questa attuale responsabilità a Sant’Anselmo per rappresentare l’Ordine benedettino in una varietà di luoghi diversi in tutto il mondo. Allo stesso tempo, posso dire che questo impegno mi ha messo alla prova sia per quanto riguarda i talenti che Dio mi ha donato, sia per quanto riguarda lo sviluppo di capacità non ancora sfruttate, necessarie per il benessere di coloro che vivono a Sant’Anselmo e per le varie situazioni nelle comunità monastiche di tutto il mondo. Ha messo alla prova le mie capacità, mi ha mostrato le mie debolezze e mi ha sfidato a crescere in modi che hanno approfondito la mia crescita spirituale, ha ampliato i miei orizzonti e mi ha permesso di vedere come il nostro Ordine benedettino, sia di uomini che di donne, preveda modi meravigliosi in cui il nostro servizio agli altri li attira a Cristo attraverso lo spirito di San Benedetto.

In questi anni come Abate Primate e vivendo a Sant’Anselmo, ho sviluppato un’amicizia spirituale con i primi fondatori della vita monastica, i padri e le madri del deserto. Questi uomini e queste donne si recarono nei deserti palestinesi ed egiziani nel IV secolo, in seguito all’editto di Costantino. Andavano alla ricerca della conoscenza dell’anima umana, e soprattutto della propria anima. La loro solitudine fornì lo spazio per una sottile ruminazione che li aprì alla semplicità e alla profondità, con discorsi eloquenti e parole di autorità, rispondendo ai loro tempi; e lasciarono un’eredità che ci parla ancora oggi. Sebbene raramente citassero lunghi passi delle Scritture, erano formati dallo Spirito divino che abitava nella Parola divina delle Scritture. Le Scritture erano nelle loro ossa e nel loro sangue, nelle loro menti e nei loro cuori. Sebbene Costantino avesse dato al cristianesimo libertà di espressione, questi monaci del deserto erano alla ricerca di una libertà che aprisse i loro occhi a vedere più profondamente, le loro orecchie a sentire più profondamente e i loro cuori a ricevere più apertamente il modo in cui lo Spirito Santo li avrebbe spinti a riflettere su questioni più serie. La loro fuga nel deserto aveva lo scopo di farli entrare nella condizione dei loro antenati nella fede, dove Dio parlava al loro cuore in modo indiviso e trasformante, portando a una vera conversione del cuore. La profezia di Osea fu la loro ispirazione: “Perciò, ecco, la attirerò a me, la condurrò nel deserto e parlerò al suo cuore” (2,16). Man mano che il loro numero cresceva, c’erano nuovi e più giovani cercatori che venivano con domande per cercare la via della volontà di Dio. Le loro domande e le loro storie ci rivelano l’intensità della saggezza che l’esperienza umana e la sofferenza avrebbero insegnato loro.

Esistono molte belle antologie di scritti che raccolgono i detti dei nostri antenati del deserto. Una in particolare è stata utile per evidenziare i temi chiave che ricorrono più volte nei loro scritti. Si tratta di The Word in the Desert (La parola nel deserto) di Burton-Christie. Leggere la tradizione del deserto è quasi come leggere il Libro dei Proverbi. I detti brevi e concisi ci costringono a fermarci e a considerare ciò che l’autore sta cercando di condividere con noi. Ma non credo che una lettura superficiale di questi testi sia sufficiente. Possiamo annoiarci facilmente e rinunciare al compito di una lettura lenta e attenta di questi detti, paragonabile al compito spirituale della lectio divina. Vorrei considerare quattro di questi punti chiave: 1) l’importanza della conoscenza di sé; 2) l’importanza della pazienza; 3) la conoscenza profonda dei Salmi e 4) la paternità spirituale e l’amore fraterno. Sono parole di un’antica tradizione monastica che parlano in uno stile molto diverso dal nostro, eppure hanno qualcosa da dire oggi, e anche a coloro che compongono le nostre comunità monastiche.

L’IMPORTANZA DELLA CONOSCENZA DI SÉ

L’abate Poemen afferma che il testo del Sal 55 (54),23 è essenziale sia per il monaco che per il padre spirituale: “Affida al SIGNORE le tue preoccupazioni ed egli ti sosterrà. Egli non permetterà mai che il giusto inciampi”. L’abate Poemen prende questo versetto del salmo e lo modifica in modo da leggere: “Gettarsi davanti a Dio; gettare davanti a Dio se stessi e le proprie preoccupazioni”. Per Poemen, soltanto la totale dipendenza da Dio ci permetterà di vederci come siamo realmente. Se non abbiamo nulla da cui dipendere, nulla su cui fondare la nostra sicurezza, arriviamo a vederci spogliati delle cose che servono a darci un falso significato di chi siamo in questo mondo. Questa è la conoscenza di sé che deriva dall’essere completamente vulnerabili davanti a Dio. Il modo in cui la tradizione del deserto tratta l’importanza della conoscenza di sé è che la conferma come qualcosa che continua ad apparire nella nostra vita. Una volta che pensiamo di essere arrivati al punto di riconoscere chi siamo, cosa c’è di unico in noi (sia in positivo che in negativo), quali sono le debolezze che ci contraddistinguono, ci rendiamo conto di come questa pratica di “gettare noi stessi e le nostre preoccupazioni sul Signore” sia un processo che dura tutta la vita. Ogni giorno ci sono occasioni in cui la nostra unicità davanti a Dio pone ostacoli nella nostra possibilità di vivere nella libertà interiore che contraddistingue il monaco.

Tuttavia, l’affidamento totale a Dio ci rafforza per poter valutare con una libertà interiore che ci permette di giudicare correttamente. Questo non è sempre facile. Tuttavia, è molto liberatorio quando ci troviamo di fronte a una questione che richiede la nostra attenta osservazione, e la libertà interiore ci mostra la strada da seguire. Quando c’è una vera conoscenza di sé, si vede più chiaramente come giudicare ciò che è giusto o sbagliato, vantaggioso o non proficuo. Quando siamo soli davanti a Dio, senza l’aiuto di alcuna persona o pensiero, ci rendiamo conto di chi siamo e siamo liberi di vedere la vita e tutte le sue complessità con una visione sicura, fiduciosa e retta. Questo non accade da un giorno all’altro. La realizzazione della libertà interiore avviene dopo anni di visione della vita attraverso questa prospettiva di totale dipendenza da Dio, vivendo allo stesso tempo con lo Spirito Santo come guida.

In pratica, si presenta una situazione che ha un certo significato perché coinvolge la propria vita. Tuttavia, quando possedete questa conoscenza di voi stessi e questa libertà interiore, vi è chiaro quale strada dovete prendere e lo fate. Non è necessariamente facile, ma è un punto fermo dentro di voi grazie alla libertà interiore che avete ricevuto per grazia di Dio e alla vostra apertura alla voce dello Spirito Santo. Il vecchio adagio “Sii fedele a te stesso” esprime questa conoscenza di sé e questa libertà interiore.

L’IMPORTANZA DELLA PAZIENZA

Spesso oggi, poiché la vita scorre così velocemente e ci aspettiamo risultati immediati, ci troviamo a diversi livelli di frustrazione. Quando ero piccolo, ricordo che mia madre mi diceva: «Ricordati che la pazienza è una virtù». Eppure mi sono reso conto di quanto sia essenziale per tutti, nel mondo di oggi, crescere in questa virtù. Troppo spesso ci affidiamo esclusivamente ai nostri soli sforzi umani per realizzare le cose. E tuttavia per noi, in quanto abati e padri di comunità, il lavoro di plasmare i cuori umani è qualcosa in cui dobbiamo impegnarci con la preghiera, la riflessione e la pazienza, perché è Dio che plasma e modella il cuore dell’uomo in un modo estremamente più splendido di qualunque cosa noi potremmo riuscire a fare. E spesso la infinita sapienza di Dio possiede qualcosa di molto più profondo e significativo rispetto a quanto noi possiamo sforzarci di costruire. Ma dobbiamo saper aspettare, e durante l’attesa, sapere pazientare perché Dio possa compiere con grazia qualcosa di molto più significativo di quanto noi avremmo mai potuto immaginare.

Ascoltiamo qualcosa dalla tradizione del deserto che parla di questo. «Quando il santo abate Antonio viveva nel deserto, la sua anima cadde nella stanchezza e nella confusione dei pensieri e cominciò a dire a Dio: “Signore, come vorrei essere guarito e che i miei pensieri non mi facessero soffrire così tanto. Cosa devo fare in questa tribolazione, come posso essere guarito?”. Poco dopo, alzandosi, cominciò a camminare all’aperto e vide qualcuno. All’inizio pensò che fosse lui stesso seduto a lavorare; vide poi che si alzava da questo lavoro e pregava; e di nuovo si sedeva a fare una corona di foglie di palma, e poi si alzava di nuovo a pregare. In realtà, si trattava di un angelo del Signore inviato ad Antonio come rimprovero e avvertimento. Poco dopo sentì una voce che gli disse: “Fai così e sarai guarito: Sii paziente”. All’udire queste parole, l’abate Antonio trasse grande gioia e coraggio da questo ammonimento. E così facendo, trovò la liberazione per la sua anima per cui aveva cercato e pregato».

La nostra disponibilità a essere pazienti ha un effetto sia su chi la riceve sia su di noi. Per colui che riceve la nostra pazienza c’è la benedizione di sapere che è stato rispettato non avendo mostrato la fretta di risolvere un problema. Dare tempo per far sedimentare pensieri, sentimenti e reazioni dimostra all’altra persona che la questione non è un “gioco di potere”, per vedere chi vincerà. Piuttosto, la pazienza rivela la nostra volontà di dare alla questione il tempo necessario per determinare la giusta direzione da seguire. La nostra pazienza può servire a un membro della comunità come insegnamento per qualsiasi situazione futura della sua vita. La pazienza può creare un legame di comunione tra due persone che, in un primo tempo in disaccordo su una questione, alla fine giungono a una visione comune della soluzione.

E così, nella nostra volontà di essere pazienti, ci sono tante benedizioni che arrivano. Innanzitutto, riconosciamo nel profondo del nostro cuore che si tratta di una questione in cui la grazia di Dio compie il suo miracolo. E questo ci rende uno strumento dell’opera di Dio; questo dovrebbe darci un senso di grande valore: essere uno strumento di Dio. In secondo luogo, ogni volta possiamo mettere nelle mani di Dio la cura dei nostri fratelli o sorelle in comunità e aspettare pazientemente che qualcosa li smuova nel percorso perfetto preparato da Dio. In terzo luogo, a volte scopriamo che il nostro piano pur benintenzionato per qualcuno non è il piano di Dio per quel fratello o sorella. Oppure che il nostro piano sperato è ancora in fase di elaborazione nel mistero della grazia, nel “tempo divino” e non nel “tempo umano”. In quarto luogo, la pazienza, se praticata più e più volte, calma la nostra anima e ci dà la pace che fa la differenza nel modo in cui ci avviciniamo alle persone e anche nel modo in cui esse ci vedono. Un abate più pacifico, tranquillo e riflessivo è sempre qualcuno a cui è più facile avvicinarsi e a cui siamo pronti ad aprire il nostro cuore. In quinto luogo, e questa è forse la cosa più importante, praticando la pazienza imitiamo Dio, la cui infinita pazienza con ciascuno di noi è una delle più grandi benedizioni della vita. Quando ripensiamo alle volte in cui Dio ha aspettato che fossimo pazienti, aperti, pronti ad ascoltare la sua voce, vediamo quanto siamo stati benedetti. E siamo grati.

UNA PROFONDA CONOSCENZA DEI SALMI

I salmi sono i nostri compagni quotidiani. Li incontriamo 3, 4 o 5 volte al giorno, a seconda della disposizione dei salmi. Alcune comunità recitano tutti i 150 salmi in una settimana; la maggior parte delle comunità li recita in due settimane e alcune comunità più piccole in 3 o 4 settimane, a seconda del numero di monaci. Ricordiamo che queste preghiere sono state tradotte dall’originale ebraico in greco, latino, siriaco e aramaico. La maggior parte dei salmi si trova tra i frammenti dei Manoscritti del Mar Morto. Questa raccolta di preghiere è stata recitata e utilizzata come fonte di preghiera per oltre 2.500 anni sia nel culto che nella preghiera privata. Gli studiosi che studiano la tradizione del deserto notano che è il Nuovo Testamento a essere citato più spesso. Tuttavia, quando viene citato l’Antico Testamento, è dai salmi. Ed è interessante notare che quando vengono citati i salmi, spesso si tratta di una riga che viene ripetuta numerose volte mentre intrecciano i loro cesti o le loro corde.

Non pensiamo spesso alla lectio divina o alla meditazione dei salmi, eppure è proprio questo il cuore della recita dei salmi nella Liturgia delle Ore e nella tradizione del deserto. L’Istruzione Generale per la Liturgia delle Ore afferma chiaramente una distinzione tra la “recita dei salmi” e la nostra “preghiera dai salmi”. Nelle prime edizioni della Liturgia delle Ore dopo il Concilio Vaticano II, venivano inserite brevi collette per accompagnare i salmi. A volte venivano recitate, a volte pregate in silenzio, a volte ignorate. Ma il punto è che la tradizione di pregare i testi dei salmi risale alla prima tradizione della nostra preghiera comunitaria. La domanda che ci poniamo è: «In che modo i testi di questi salmi richiamano la preghiera del nostro cuore; in che modo le parole del salmo accendono in noi un fuoco che chiama Dio nella preghiera del cuore?».

Lo dico perché a volte la recita dei salmi avviene senza alcuna pausa che possa incoraggiare la preghiera o la riflessione. Come ogni altro libro della Bibbia, anche i salmi sono la parola ispirata di Dio. Dio ci parla attraverso queste parole e chiede una risposta da parte nostra. Negli ultimi anni, lo studio dei salmi ha evidenziato che proprio il primo salmo del salterio è un “salmo della torah”, un salmo di istruzione. Questo salmo suggerisce forse che l’intero libro dei salmi è più di una raccolta di preghiere, è anche una guida a una vita retta e giusta, in tale contrasto con la violenza e la guerra che pervadono il nostro mondo di oggi, da invitarci a pregare per questa necessità e intenzione? Posso dirvi che, fin dai giorni del mio noviziato, il Salterio è stato un compagno costante di preghiera e di riflessione.

Raccoglie una moltitudine di tipi diversi di preghiere in cui i nostri cuori sono rivolti alle lotte della vita con i nemici, alla violenza della guerra, ma anche alla lode profonda e al ringraziamento riconoscente. Non incoraggerò mai abbastanza una profonda comprensione della ricchezza che troviamo nel Salterio per la nostra vita quotidiana, per la nostra preghiera quotidiana e per la nostra riflessione quotidiana sulle tensioni del mondo di oggi.

Conoscete e amate il Salterio, miei buoni fratelli e sorelle!

PATERNITÀ SPIRITUALE E AMORE FRATERNO

Leggendo la Regola di San Benedetto, il ruolo dell’abate come padre spirituale è l’immagine più significativa di colui che guida la comunità. «Qualunque cosa insegni o comandi l’abate penetri l’animo dei suoi discepoli come un buon fermento dì divina giustizia (RB 2,5); eguale carità eserciti dunque l’abate per tutti, una medesima linea di condotta segua per tutti, tenendo conto dei loro meriti (RB 2,22); l’abate deve sempre ricordarsi di ciò che è e ricordarsi di come è chiamato – padre» (RB 2,30). Ci sono tanti altri riferimenti alla paternità spirituale dell’abate, e tutti voi li conoscete bene. Tuttavia, il titolo di paternità spirituale presenta alcuni pericoli. Se viene esercitato con troppa forza, i monaci si sentono come bambini, persone senza responsabilità, iniziativa e intelligenza. Se è enfatizzato troppo, può creare un’atmosfera di immaturità che ha effetti negativi sulla crescita e sulla vitalità della comunità. Eppure, quando c’è un forte senso di avere un padre spirituale a capo della comunità, c’è l’aspettativa di buona volontà nella comunità, un desiderio di benessere per tutti e un senso di direzione per il futuro.

Uno dei modi in cui la paternità spirituale crea un sano equilibrio è il senso di amore fraterno che proviene dall’abate. Ancora una volta, ascoltiamo la tradizione del deserto per darci una prospettiva. «Un tempo l’abate Giovanni stava salendo da Scete con alcuni confratelli. Il monaco che li guidava sbagliò strada, perché era notte. Alcuni dei confratelli dissero all’abate Giovanni: “Che cosa dobbiamo fare, padre, perché nostro fratello ha sbagliato la strada e noi potremmo perderci nel buio e persino morire su questi sentieri sconnessi?”. E l’abate Giovanni rispose: “Se gli diciamo qualcosa di negativo, si sentirà male e si scoraggerà. Ma io farò finta di essere stanco e dirò che non posso camminare oltre, ma devo sdraiarmi qui finché non arriva il mattino”. E così fece. E l’altro fratello disse: “Non andremo avanti, ma ci siederemo accanto a te”. E si sedettero fino al mattino, per non scoraggiare o ferire il fratello”. L’esempio dell’abate parlò con forza ai suoi figli, che lo seguirono. Videro l’amore del loro padre spirituale e desiderarono seguirlo.

L’amore per i fratelli è molto importante. Ogni monaco ha bisogno di sapere due cose: innanzitutto, che è amato e che ci si prende cura di lui, e inoltre che ha un padre spirituale nella persona dell’abate della comunità. La differenza che questo fa nella vita della comunità è così tangibile e chiara, che si può riconoscere che questa comunità vive con un amore fraterno che scaturisce dalla relazione con il padre spirituale. La parola “amore” non è sempre un termine comodo per gli uomini. Alcuni usano termini per descrivere l’amore come sostegno, incoraggiamento, cura, simpatia, gentilezza, comprensione e compassione. Questo può essere utile, ma non dobbiamo perdere il vero senso della parola amore, perché le Scritture ci ricordano che «Dio è amore; chi sta nell’amore dimora in Dio e Dio dimora in lui» (1Gv 4,16b). E san Paolo ci dice nella sua lettera ai Romani: «L’amore di Dio è stato riversato nei nostri cuori per mezzo dello Spirito Santo che ci è stato dato» (5,5). Dalle Scritture sappiamo anche che l’amore che Gesù esigeva dai suoi discepoli non era sempre un incontro facile. A volte, per amare veramente un fratello o una sorella, è necessario disciplinare la persona, apportare un cambiamento nella vita di lui o di lei che non richiederà un adattamento facile, ma se è fatto con amore, ha un peso significativo. Quando un monaco sa che il suo abate lo ama e si preoccupa per lui, che è disposto a sacrificarsi per lui, e anche quando deve fare un cambiamento per il bene di qualcun altro, se c’è amore fraterno, c’è anche una comunione di spiriti che rivela l’amore di Dio che è presente lì.

Una cosa molto concreta e importante per me è la preghiera per i fratelli. Non sto parlando di “vedere un bisogno e ricordarlo nelle proprie intenzioni di preghiera”, che è cosa importante. Ma ancora più importante, prima come abate dell’Abbazia della Concezione e ora come abate di Sant’Anselmo, è che ho pregato per ogni monaco per nome, ogni giorno. E potrei dire che, per la mia comunità di origine, continua ancora per i monaci dell’Abbazia della Concezione. Mi piace credere che sia questo il motivo per cui sono così felice di tornare a casa dopo 8 anni di permanenza a Roma. Sì, in effetti, ho amato Roma; mi sono fatto degli amici meravigliosi qui, ci sono state tante esperienze arricchenti, ho apprezzato molto la visita alle comunità di uomini e donne benedettini, eppure conosco il luogo e le persone in cui ho amato profondamente e sono amato, e so dov’è la mia casa, e non vedo l’ora di tornarci per intraprendere il prossimo capitolo della mia vita monastica.

In many ways these four ideas – growing in self-knowledge, exhibiting the virtue of patience, finding a home in the psalms, and bringing love to your service as abbot or abbess – are simple yet distinctive, not only of Saint Benedict, but also of Jesus as exhibited in the Gospels. We are entrusted with human souls – men and women with high ideals and also fragile personalities and abilities. When our relationship with each of the members of our community grows into an experience of communion, a monastic community exhibits a vibrancy which can only come from the grace of God at work in it. When we are willing to walk the rough road with another, and even when we are unsure of the next step, we are carrying out the work of the Rule and the Gospel. While it seems so utterly simple, it is also so profoundly deep in building up the kingdom of God within our monastic communities.

Before finishing this talk, there are some people whom I would like to publicly acknowledge for their assistance and encouragement to me during these past eight years. The Prior of Sant’Anselmo, Father Mauritius Wilde of Münsterschwarzach, has been here with me for the last 8 years. I thank him for the generous use of his skills and talents in organizing the life of the collegio. When I am away from Sant’Anselmo, I feel confident that the care of the monks, living and studying here, are in good hands. I thank also the Subprior, Father Fernando Rivas of the Abbey of Lujan in Argentina for his generous service both in the collegio and in the Ateneo. He has multiplied the programs of monastic formation in a variety of languages to Benedictines and Cistercians throughout the world. I thank the Rector of the Ateneo, Father Bernhard Eckerstorfer of the Abbey of Kremsmünster in Austria for his creative genius in moving our university forward and forming a strong community among the faculty and students. I thank Father Geraldo Lima y Gonzalez for his work in the Treasury and his work as Procurator of several of our Congregations. Father Geraldo is one of the most generous individuals who applies his talents wherever they are needed. Father Rafael Arcanjo who also works in the Business Office and supervises our volunteers, who help keep life moving forward here. Mr. Fabio Corcione as the supervisor of our Business Office. Our guests are well cared for by Father Benoît Allogia of St. Vincent Archabbey and Brother Victor Ugbeide of Ewu in Nigeria.

The care of the house as curator domus is ably supervised by Father Josep Maria Sanroma of Montserrat, who is also secretary to the Prior. Father Laurentius Eschelböch, who serves as our Canonist and Professor, has been most generous in his time and energy in helping with the canonical problems that arrive at the Primate’s desk. My personal secretary in the curia, Mr. Walter Del Gaiso, has been nothing short of exceptional in all his endeavors. He works with care, generosity, and speed to put in a full day’s labors, day after day. And as you know, “a good kitchen keeps a healthy house,” so I sincerely thank Antonio Giovinazzo and his team in the kitchen, of which we are the happy recipients these days. It is important to offer a word of thanks to Sister Lynn McKenzie the Moderator of the CIB; our communications and work together have been a sign of the importance of the collaboration between men and women Benedictines. And the final word here goes to the abbots who have allowed these monks to be here at Sant’Anselmo as professors and officials. These are talented men who are certainly missed in their home communities because of the gifts and talents which they generously share with this community of Sant’Anselmo. To you, dear brother-abbots, I offer a sincere word of thanks and deep gratitude. Sant’Anselmo lives and breathes new life because of your generosity and self-sacrifice.

“Let us all prefer nothing whatever to Christ, and may he bring us all together to everlasting life. Amen” (RB 72:11).

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